CLIMAX 11 di Francesco Gallo Mazzeo

 

Ribelli di Cà Pesaro

 

Un gruppo di artisti veneti, più uno, non veneto, Felice Casorati, una

bella accolita di personalità in erba, che avrebbe fatto parlare di sé,

per lo spirito di autogoverno e di indipendenza, che richiama alla

mente i fratelli maggiori, impressionisti francesi e tutti i renitenti e

rifiutati dalle scelte correnti in arte, nelle selezioni espositive, che non

accettano di essere tali. Il loro intento è locale, anacronistico, se vogliamo,

ma non per questo meno importante, quello della diversità che si oppone

alla monocultura dell’ormai, optando per l’anche, che non rottama nulla,

ma a forza di modifiche, transita in maniera molecolare e tonale,

là dove ogni avanguardia taglia netto, in maniera decisa, plastica. Sono gli

ultimi artisti della scuola veneta, impegnati a rinnovare la tradizione,

iniziata con Antonello da Messina, incentrandosi sui soggetti e i paesaggi della

venezianità mentale. Il capo è Nino Barbantini, critico finissimo, come

lo definì Bernard Berenson, “dotato di intuito, di gusto sobrio, di un occhio

sicuro per l’ambientamento dell’opera d’arte”; i protagonisti sono, Umberto

Moggioli, Gino Rossi, Umberto Boccioni, Pio Semeghini, Arturo Martini, Teodoro

Wolf Ferrari, Guido Cadorin, Tullio Garbari, Vittorio Zecchin, Ubaldo Oppi,

Mario Cavaglieri, Napoleone Martinuzzi, Piero Marussig, Ercole Sibellato.

Un gruppo nutrito, la cui composività è indice di modernità vera, capace di

vantarsi di essere erede di superlativi come Giorgione, Tiziano, Canaletto,

Guardi, Tiepolo, naturalmente facendo le dovute differenze, ma senza

provincialismo e folclorismo. Il loro luogo di elezione fu Cà Pesaro, 1908, della

Fondazione Bevilacqua La Masa e lì anche il loro trionfo che li ha fatti passare

alla storia. Sperimentalisti, innovatori, ma senza preclusioni per il passato

e la tradizione, ma neanche ripetitivi e tradizionalisti, per cui essenzialmente

moderni, nel senso di essere orientati per l’originalità, per fare apparire un

ignoto, un nuovo. Li possiamo chiamare riformisti, dei riformisti strutturali,

differenti dai rivoluzionari avanguardisti. Perché essi non tendono alla

sostituzione poetica, tecnica, formale, ma ad una modifica continua, che non

è nella oggettività, ma è nella poetica, nella psicologia e oggi possiamo dire

nell’idealità, nell’idealismo, visto che negli ultimi tempi, sta salendo la

consapevolezza che l’osservatore, a maggior ragione l’osservatore che lavora

sul visibile e sull’invisibile, modifica l’oggetto osservato, così come l’innamorato

modifica le fattezze del suo partner, facendone un altro, oltre il reale. Là dove

l’avanguardia (comunque, grazie a Dio di avercela mandata) lavora in maniera

meccanica (e non è un caso che cubismo, futurismo, siano espressione di un

furore dinamico), loro li possiamo vedere come precursori di un realismo, dolce,

magico, che tende a cogliere il meglio, il piacevole, pur nella consapevolezza che

ogni volto ha un risvolto spiacevole e sgradevole. Ribelli sì.! Ma, Poeti e Cantori.!