Ribelli di Cà Pesaro
Un gruppo di artisti veneti, più uno, non veneto, Felice Casorati, una
bella accolita di personalità in erba, che avrebbe fatto parlare di sé,
per lo spirito di autogoverno e di indipendenza, che richiama alla
mente i fratelli maggiori, impressionisti francesi e tutti i renitenti e
rifiutati dalle scelte correnti in arte, nelle selezioni espositive, che non
accettano di essere tali. Il loro intento è locale, anacronistico, se vogliamo,
ma non per questo meno importante, quello della diversità che si oppone
alla monocultura dell’ormai, optando per l’anche, che non rottama nulla,
ma a forza di modifiche, transita in maniera molecolare e tonale,
là dove ogni avanguardia taglia netto, in maniera decisa, plastica. Sono gli
ultimi artisti della scuola veneta, impegnati a rinnovare la tradizione,
iniziata con Antonello da Messina, incentrandosi sui soggetti e i paesaggi della
venezianità mentale. Il capo è Nino Barbantini, critico finissimo, come
lo definì Bernard Berenson, “dotato di intuito, di gusto sobrio, di un occhio
sicuro per l’ambientamento dell’opera d’arte”; i protagonisti sono, Umberto
Moggioli, Gino Rossi, Umberto Boccioni, Pio Semeghini, Arturo Martini, Teodoro
Wolf Ferrari, Guido Cadorin, Tullio Garbari, Vittorio Zecchin, Ubaldo Oppi,
Mario Cavaglieri, Napoleone Martinuzzi, Piero Marussig, Ercole Sibellato.
Un gruppo nutrito, la cui composività è indice di modernità vera, capace di
vantarsi di essere erede di superlativi come Giorgione, Tiziano, Canaletto,
Guardi, Tiepolo, naturalmente facendo le dovute differenze, ma senza
provincialismo e folclorismo. Il loro luogo di elezione fu Cà Pesaro, 1908, della
Fondazione Bevilacqua La Masa e lì anche il loro trionfo che li ha fatti passare
alla storia. Sperimentalisti, innovatori, ma senza preclusioni per il passato
e la tradizione, ma neanche ripetitivi e tradizionalisti, per cui essenzialmente
moderni, nel senso di essere orientati per l’originalità, per fare apparire un
ignoto, un nuovo. Li possiamo chiamare riformisti, dei riformisti strutturali,
differenti dai rivoluzionari avanguardisti. Perché essi non tendono alla
sostituzione poetica, tecnica, formale, ma ad una modifica continua, che non
è nella oggettività, ma è nella poetica, nella psicologia e oggi possiamo dire
nell’idealità, nell’idealismo, visto che negli ultimi tempi, sta salendo la
consapevolezza che l’osservatore, a maggior ragione l’osservatore che lavora
sul visibile e sull’invisibile, modifica l’oggetto osservato, così come l’innamorato
modifica le fattezze del suo partner, facendone un altro, oltre il reale. Là dove
l’avanguardia (comunque, grazie a Dio di avercela mandata) lavora in maniera
meccanica (e non è un caso che cubismo, futurismo, siano espressione di un
furore dinamico), loro li possiamo vedere come precursori di un realismo, dolce,
magico, che tende a cogliere il meglio, il piacevole, pur nella consapevolezza che
ogni volto ha un risvolto spiacevole e sgradevole. Ribelli sì.! Ma, Poeti e Cantori.!