CLIMAX 19 di Francesco Gallo Mazzeo

Elena Veiera da Silva. Labirinti.

 

Veiera da Silva è uno dei volti del Portogallo, quello che guarda

verso il mare, che per tanto tempo non ha avuto una riva

specchiante, per cui viaggio da una certa terra ad una incerta

onda, sempre interrogato sull’enigma della sponda e mai dalla

retrostante Spagna, quindi sotteso da silenzio e canto accorato

(mi viene in mente quello di Amalia Rodriguez, regina del fado,

dalla struggente melanconia). Le è stata necessaria una Parigi,

per alzare il tono dell’accoratezza e farla diventare analitica,

“razionante” e “particulare”, all’interno di un percorso, che potrebbe

essere quello di Fernando Pessoa, che attribuisce al genio “la peggiore

maledizione con cui Dio può benedire una persona umana.  Deve

essere sopportata con il minimo possibile di gemiti e lamenti e con

la maggiore coscienza possibile, della propria divina tristezza!”. Sembra

proprio il suo ritratto e d’altra parte l’Ecole de Paris, che non è una

avanguardia, né un gruppo compatto e consapevole, ma una

aggregazione personale di gente diversa, sembra fatta proprio per

lei. La sua pittura è pluviale, di quei giorni in cui l’acqua cade così

fitta, che sembra esserci solo essa ad essere nel mondo, senza

altro, senza altri. Cosi è il suo reale scomposto, surreale, Bibliothéque,

del 1949, Untitled del 1955, Passage of the mirrors, 1981, sono

capitoli dello stesso romanzo personale; come lo scorrere di una

energia che fa gire e volte, per cercare il quid nascosto, non fuori

di essa, ma dentro di essa stessa. “Nei labirinti dei suoi straordinari

colori, si connota uno speciale telaio compositivo, una struttura

poetica, allusiva, di un luogo, di una situazione”. (J.V) Luoghi e

situazioni di inganni, trappole per la vista, tanto che per seguire

i fili della composizione, si perde la cognizione del tempo. La sua

città, la sua reticolarità, la sua architetturalità: Paris, 1951, Le de part,

1968, Elegy for G. Pompidou, 1978, sono l’opus fantasticum e

 l’ideogramma del disordine del nuovo che prende corpo, in una

oscillarità tra visibilità e trasparenza. Scrive Jan Valles, che “in questo

silenzio, la sua invenzione pittorica, magicamente, con i suoi rapporti

tonali, attraversa leggera, i diversi momenti della pittura novecentesca,

dalla figurale all’informale”. Perché tutto nasciamo figurali.!  E voglio

concludere con fiocchi del suo testamento, tradotti da Antonio Tabucchi:

“Lascio ai miei amici/ un azzurro ceruleo per volare in alto/ un blu

cobalto per la felicità/ un azzurro oltremare per stimolare lo spirito/

un vermiglio per far circolare il sangue allegramente/ un verde muschio

per calmare l’inquietudine/ un giallo oro: ricchezza/.” E poi prosegue

ancora: “un violetto cobalto per la reverie/ una lacca… un giallo

cadmio, un giallo ocra…un verde veronese…un indaco…un

arancione, un giallo limone, un bianco purezza, una terra di Siena:

trasmutazioni dell’oro, un nero suntuoso, un verde Tiziano, una

terra d’ombra nella malinconia, una terra di Siena bruciata, per

il rendimento della durata”. Può bastare?! Grazie Maria Elena!!!