Elena Veiera da Silva. Labirinti.
Veiera da Silva è uno dei volti del Portogallo, quello che guarda
verso il mare, che per tanto tempo non ha avuto una riva
specchiante, per cui viaggio da una certa terra ad una incerta
onda, sempre interrogato sull’enigma della sponda e mai dalla
retrostante Spagna, quindi sotteso da silenzio e canto accorato
(mi viene in mente quello di Amalia Rodriguez, regina del fado,
dalla struggente melanconia). Le è stata necessaria una Parigi,
per alzare il tono dell’accoratezza e farla diventare analitica,
“razionante” e “particulare”, all’interno di un percorso, che potrebbe
essere quello di Fernando Pessoa, che attribuisce al genio “la peggiore
maledizione con cui Dio può benedire una persona umana. Deve
essere sopportata con il minimo possibile di gemiti e lamenti e con
la maggiore coscienza possibile, della propria divina tristezza!”. Sembra
proprio il suo ritratto e d’altra parte l’Ecole de Paris, che non è una
avanguardia, né un gruppo compatto e consapevole, ma una
aggregazione personale di gente diversa, sembra fatta proprio per
lei. La sua pittura è pluviale, di quei giorni in cui l’acqua cade così
fitta, che sembra esserci solo essa ad essere nel mondo, senza
altro, senza altri. Cosi è il suo reale scomposto, surreale, Bibliothéque,
del 1949, Untitled del 1955, Passage of the mirrors, 1981, sono
capitoli dello stesso romanzo personale; come lo scorrere di una
energia che fa gire e volte, per cercare il quid nascosto, non fuori
di essa, ma dentro di essa stessa. “Nei labirinti dei suoi straordinari
colori, si connota uno speciale telaio compositivo, una struttura
poetica, allusiva, di un luogo, di una situazione”. (J.V) Luoghi e
situazioni di inganni, trappole per la vista, tanto che per seguire
i fili della composizione, si perde la cognizione del tempo. La sua
città, la sua reticolarità, la sua architetturalità: Paris, 1951, Le de part,
1968, Elegy for G. Pompidou, 1978, sono l’opus fantasticum e
l’ideogramma del disordine del nuovo che prende corpo, in una
oscillarità tra visibilità e trasparenza. Scrive Jan Valles, che “in questo
silenzio, la sua invenzione pittorica, magicamente, con i suoi rapporti
tonali, attraversa leggera, i diversi momenti della pittura novecentesca,
dalla figurale all’informale”. Perché tutto nasciamo figurali.! E voglio
concludere con fiocchi del suo testamento, tradotti da Antonio Tabucchi:
“Lascio ai miei amici/ un azzurro ceruleo per volare in alto/ un blu
cobalto per la felicità/ un azzurro oltremare per stimolare lo spirito/
un vermiglio per far circolare il sangue allegramente/ un verde muschio
per calmare l’inquietudine/ un giallo oro: ricchezza/.” E poi prosegue
ancora: “un violetto cobalto per la reverie/ una lacca… un giallo
cadmio, un giallo ocra…un verde veronese…un indaco…un
arancione, un giallo limone, un bianco purezza, una terra di Siena:
trasmutazioni dell’oro, un nero suntuoso, un verde Tiziano, una
terra d’ombra nella malinconia, una terra di Siena bruciata, per
il rendimento della durata”. Può bastare?! Grazie Maria Elena!!!