CLIMAX 18 di Francesco Gallo Mazzeo

 

Scipione. Un astro fuggente

 

Scipione, lo si può definire, un traduttore immaginario, nella sua,

particolare versazione a fare convergere le sue figure, nelle tramature

di disegno, nelle lastricature di colore, ogni suo senso che venisse dal

suono delle parole, dalla lettura di un testo, da un olfatto, da un tatto,

da una visceralità, da un impulso metafisico, da una sollecitazione erotica.

La sua, rimane una particolare perversione poetica, capace di provocare

e identificare i propri fantasmi, ordinare un reale sbriciolato, farlo imago e

sollecitare continue variazioni su ogni tema, stravolgendole, di volta in volta,

ora metafora, ora allegoria, ora evocazione, ora invocazione e astrazione.

Insomma, una capacità d’essere complice del proprio destino di romano

di adozione, con una forte carica di sacralità, che in lui non diventa liturgica,

ma anzi, dissacrante, eretica, seppure di quella eresia che non vuole distruggere

il suo oggetto, ma lo vuole fare suo, esserne l’ortodossia. Date queste premesse,

il centro della sua poetica, non può che essere Roma, il suo eterno metastorico

barocco, tale anche prima di Bernini e Borromini e tale anche dopo, fino ai nostri

giorni e forse eterno. A scorrere le opere della sua leggenda, si può compilare

una metafisica dell’amor sacro e dell’amor profano, così come emana dal suo

Ponte degli Angeli, dal Colosseo, dal Ritratto del Cardinal Decano, dalla Piazza

Navona, dove non c’è ritrattistica, non c’è vedutismo, non c’è descrizione, ma

una evocazione leggendaria, che vuole comprendere lo spirito delle pietre, le

memorie che sono depositate nell’aria. La contaminazione di chi in esse vive e

muore. Ed ogni vita ed ogni morte, hanno lasciato un’orma indelebile, per quanto

invisibile e sono i fantasmi che popolano i suoi sfondi, i suoi orizzonti, che fanno

un unicum, con le forme di un contenuto allucinatorio, delirante. Scipione, non

è interessato alle superfici specchianti, alle apparenze; poco “italiano”, più

vicino al mondo di Kafka e di Jung, di Munch e di Bacon, che non ad un

vedutismo metamorfico e naturalistico, che da Corot giunge fino a lui, filtrato

attraverso mille sfumature precedenti e contemporanee. La sua è una linea

strana, che lo “lega” a Velasquez, come a Chagall, come a Kokoscha, con

una sua peculiarità, che è mentale, psicologica, seppur segnata da una

costante specularità, con la sua malattia fisica che non gli fa compiere neanche

trenta anni (1904/1933). Un nuovo Raffaello, che ha dato tutto quello che poteva

dare, nella prospettiva del presente che non affida niente al futuro, quindi deve

assorbire tutto in breve tempo e rilascia, nelle sue opere, il senso pieno di

una sofferenza che non diventa lamento e schiacciamento, ma porta ad una

intensificazione di ogni momento dell’esistenza e dare tanto, tanto. Un tutto.

Imprimendosi, a marchio, nel nostro immaginario!