Scipione. Un astro fuggente
Scipione, lo si può definire, un traduttore immaginario, nella sua,
particolare versazione a fare convergere le sue figure, nelle tramature
di disegno, nelle lastricature di colore, ogni suo senso che venisse dal
suono delle parole, dalla lettura di un testo, da un olfatto, da un tatto,
da una visceralità, da un impulso metafisico, da una sollecitazione erotica.
La sua, rimane una particolare perversione poetica, capace di provocare
e identificare i propri fantasmi, ordinare un reale sbriciolato, farlo imago e
sollecitare continue variazioni su ogni tema, stravolgendole, di volta in volta,
ora metafora, ora allegoria, ora evocazione, ora invocazione e astrazione.
Insomma, una capacità d’essere complice del proprio destino di romano
di adozione, con una forte carica di sacralità, che in lui non diventa liturgica,
ma anzi, dissacrante, eretica, seppure di quella eresia che non vuole distruggere
il suo oggetto, ma lo vuole fare suo, esserne l’ortodossia. Date queste premesse,
il centro della sua poetica, non può che essere Roma, il suo eterno metastorico
barocco, tale anche prima di Bernini e Borromini e tale anche dopo, fino ai nostri
giorni e forse eterno. A scorrere le opere della sua leggenda, si può compilare
una metafisica dell’amor sacro e dell’amor profano, così come emana dal suo
Ponte degli Angeli, dal Colosseo, dal Ritratto del Cardinal Decano, dalla Piazza
Navona, dove non c’è ritrattistica, non c’è vedutismo, non c’è descrizione, ma
una evocazione leggendaria, che vuole comprendere lo spirito delle pietre, le
memorie che sono depositate nell’aria. La contaminazione di chi in esse vive e
muore. Ed ogni vita ed ogni morte, hanno lasciato un’orma indelebile, per quanto
invisibile e sono i fantasmi che popolano i suoi sfondi, i suoi orizzonti, che fanno
un unicum, con le forme di un contenuto allucinatorio, delirante. Scipione, non
è interessato alle superfici specchianti, alle apparenze; poco “italiano”, più
vicino al mondo di Kafka e di Jung, di Munch e di Bacon, che non ad un
vedutismo metamorfico e naturalistico, che da Corot giunge fino a lui, filtrato
attraverso mille sfumature precedenti e contemporanee. La sua è una linea
strana, che lo “lega” a Velasquez, come a Chagall, come a Kokoscha, con
una sua peculiarità, che è mentale, psicologica, seppur segnata da una
costante specularità, con la sua malattia fisica che non gli fa compiere neanche
trenta anni (1904/1933). Un nuovo Raffaello, che ha dato tutto quello che poteva
dare, nella prospettiva del presente che non affida niente al futuro, quindi deve
assorbire tutto in breve tempo e rilascia, nelle sue opere, il senso pieno di
una sofferenza che non diventa lamento e schiacciamento, ma porta ad una
intensificazione di ogni momento dell’esistenza e dare tanto, tanto. Un tutto.
Imprimendosi, a marchio, nel nostro immaginario!