CLIMAX 20 di Francesco Gallo Mazzeo

Tamara de Lempicka. Magica.

 

La sua è una ritrattistica, del tutto particolare, nient’affatto pittorica,

nel senso corrente del termine, perché è fondamentalmente segnica,

scultorea, molto algida, anche se cromaticamente attrezzata (come

lo era quella greca e romana, che noi ci siamo trovata scolorita.

Tamara de Lempicka è una stilistica a tutto tondo; a lei non interessa

cogliere il guizzo individuale, diverso l’uno dall’altro, ma il segno di

un’epoca, che imprime il suo forte marchio, che sul momento è invisibile,

ma poi si rivela con tutta la sua forza avvolgente e affascinante. Fredda

lo è, nel senso greco del termine, in quanto ogni volta inquadra un suo

pensiero interiore e lo proietta sul dipinto, conferendogli estraniazione e

maestà, proprio perché lontana dal cercare un dialogo, rivolta com’è

ad un impeto auto contemplativo, che sospende ogni emozionalità,

spinta dal simbolismo, di una geometricità, che coglie la struttura

fenomenica del vedere e la pone come oggetto di desiderio.  E ciò la fa

apparire astratta, astrale, sospesa in un momento suo proprio, che è

plastico, corporale, ma nello stesso tempo etereo e imprendibile, nel suo

non suscitare emozione, separata da un abile filtro di poetica dell’enigma,

della fuggevolezza, resa proprio dal senso di statica immobilità, che si nutre

di toni netti, disegnati quanto basta per dire del genio della sua autrice.

Non c’è dubbio che risenta della nuova oggettività, da Otto Dix, in quanto

si fonda sull’oggetto, appunto, cioè su una concretezza, su una esperienza

visiva, in diretta frequenza con l’eliminazione dell’effimero, del decorativo,

del gesto, ritenuto inutile. C’è in lei, un deposito cubista e surreale, elaborato

a suo modo.  Cito solo tre opere, Autoritratto sulla Bugatti, del ’29, Kizette

al balcone, di due anni prima e Sleeping Girl, del ’30, che mi sembrano focali,

per comprendere i suoi canoni matematici, alla Policleto, in questo suo

speciale mondo senza rumori, senza i frastuoni della modernità, come se i

suoi soggetti non avessero altro a cui guardare, che la propria immagine,

per altro ben nascosta in una imperturbabilità, che è un senso dei sensi della

solitudine, di un suo modo speciale di fare parlare il silenzio, senza parole,

con una inespressività dettata dalla sua rigorosa attitudine alla riflessione

interiore della forma in quanto tale, in quanto trasparenza pellicolare, che

ingloba tutto e fa vedere quello che lei vede. Lei intendo, Tamara, con gli

occhi del cuore, che non è di pietra, ma chiede riservatezza e nella prometeica

essenzialità della forma, consegna a noi, il senso di un’epoca, di uomini,

donne, bambini, che sono stati carne ed ossa. E oggi sono immagini.