Bona de Mandiargues. Surreale. Irritante.
All’inizio era Bona Tibertelli de Pisis, ben nata e tutta italiana, diventa poi
de Mandiargues, dopo il matrimonio con lo scrittore e critico Andrè Pieyre,
negli anni della sua “migrazione” a Parigi, dopo Roma, Modena, Venezia,
che sono anche le occasioni di entrata nell’area surrealista, arrivata alla
sua terza età, con gli eterni Breton, Ernst, Ray, Dubuffet, Michaux, Bellmer.
Siamo ai primi anni cinquanta e lei è al massimo dello splendore, dei suoi
vent’anni, tanto da suscitare ammirazione affascinata di tutti, per la sua
bellezza e farla definire da Octavio Paz, come la donna più bella del mondo.
Naturalmente si tratta di una esagerazione, ma di una esagerazione ben
fondata sul suo aspetto fisico, non meno che sulla sua spiccata intelligenza
e bravura artistica, che si comincia a manifestare, nei suoi quadri di piccole
dimensioni, ma che non si possono definire quadretti, bensì indagini delle
nature cangianti, che sono paesaggi antropomorfi, radici di piante, creature
mostruose, in un avvolgente onirismo, di spazio totalmente immaginario e
metafisicizzante. La morte dello zio Filippo de Pisis, nel ’56, la destabilizza
e la fa passare ad una fase in cui in cui il suo surrealismo si fa spettrale,
metamorfico, lunare, con l’utilizzo di decalcomanie stranianti e l’uso frequente
di terre, polveri, intonaci, che diventano opere senza soggetto, con una
astrazione incombente, che fa sparire le figure, segnando un suo momento
di forte trapasso intellettuale e morale, accentuato dalla frequentazione di
donne protagoniste come Dorothea Tanning, Germaine Richier, Meret
Oppenheim, Unica Zurm, Leonora Carrington. Tutte queste artiste, danno
occasione a de Mandiargues e Paz, di soffermarsi, sulla rivista “Obliques”
sulle prospettive di un nuovo protagonismo femminile, diverso da quello
maschile, ma esplorativo di un versante artistico totalmente nuovo, mai
percorso dalla psicologia maschile. Per lei è il momento di un nuovo modo
di atteggiarsi artistico, quello che parte dal collage di tessuti, diventato il
Visage Patchwork e l’accentuarsi di una sua surreale metafisica, totalmente
straniante e contorta, nella sua ansia di penetrare l’ignoto e l’imprevisto.
Realizza ritratti illustri, in tessuto, riprendendo modernamente, l’itinerario
dell’arazzo, ma con una caratura non tradizionale, speciale, “sperimentale”.
Tanto per cambiare, si fa per dire. Notevole è anche la sua scrittura, sia
poetica che descrittiva, espressione della sua trasgressività a tutto tondo,
da La Cafarde, dell’1966, a Moi-meme, successivo. Insomma una vera
e propria protagonista. È morta, nel pieno della sua capacità creativa,
nel 2000. Io ho avuto la ventura di conoscerla, sul finire degli anni ottanta,
a Milano e Parigi. Non mi fece una bella impressione, la trovai fredda e
scostante. Oggi ne percepisco tutto il fascino. Umano e creativo.!!!