Music. Oracolo. Sfinge. Pittore
Conobbi Anton Zoran Music, 1909/2005, quasi in contemporanea con Manlio Cancogni e Mario Spagnol, di cui parlerò in altra occasione. Mi sembrò un immortale, un uomo senza tempo, fatto in una tempra che non prevede, né la nascita, né la morte; burbero quanto basta, per incutere rispetto e riverenza, pittore eccelso quanto invisibile, portatore di una sapienza multiforme del Campo di Dachau, nella sua poetica del colore, del disegno, del segno, della memoria. Alto, altissimo, sempre con passo lento, deciso, da vero camminatore, capace di stringerti la mano, fino a farti sentire il senso deciso del suo essere, quanto delicato nel dialogare, con i colori elettivi, pochi, della sua tavolozza, dotato di una grande qualità visiva, di un saper vedere nella pittura veneta, quanto di più intraprendente in un cammino di modernità, nell’imprevisto, nell’emozione, nel salto logico che la poesia, ogni poesia, deve saper suscitare, raggiungendo i campi elisi dell’imprevedibile beatitudine. Ci siamo frequentati per diverse stagioni, importanti, come quella che vide il suo incontro con Ernest Beyler, con il coinvolgimento dei geniali, Carlo Palli e Stefano Contini, da cui nacque la sua meravigliosa mostra di Bellinzona e tutto il suo seguito, di meritato, tardivo inserimento nel segmento alto del mercato dell’arte, un segmento in cui lui c’era già, in maniera élitaria, che divenne così generalizzante e planetario. Venezia e Parigi, luoghi eletti della sua vita, non in apparenza, ma solo in trasparenza, sono state genitrici della sua poetica, anche se non appaiono sulla scena della sua pittura, ma sono state ispiratrici profonde del suo modo sincronico, di leggere la storia, la vita, l’arte, la filosofia, la religione, la politica, l’attualità, il presente e l’innovazione; per cui tutto il suo immaginario è da considerare come una metafora, dove tutto quello che si sta vivendo, non è quello che sembra, ma un suggerimento, una maieutica, per fare emergere un invisibile, che è quello del suo cuore, dei suoi sogni. Dunque, la sua immagine, di uomo e di artista, che mi sento di porre accanto, per conspiratio oppositorum, a quella di Ezra Pound, non tanto per una similarità eclatante, ma per un modo ieratico e sacrale di guardare le cose del mondo, per non perdersi nelle banalità e nella aneddotica, ma scavare a fondo, là dove gli altri non scavano e portare luce, là dove non arriva e soprattutto portare un senso là dove c’è torpore e dissennatezza. Lo stigma centrale rimane quello di Dachau, che segna un prima e un dopo, nella storia biologica e biografica della sua vita, di uomo e di artista, persino nei suoi cavallini dalmati e nelle sue crete senesi, il cui orizzonte non è mai stato, quello di ordinario del toccarsi di terra, mare e cielo, in una ipotetica orizzontalità, ma quello del suo animus e della sua anima, catoniana e augure, di in frangitore di regole cromatiche, quando queste gli sembravano anguste e deludenti. Sempre con sé stesso e sempre col suo breviario di immagini, sue compagne in sogno e in veglia. In opere, d’opera.