Vittorio Olcese. Collezionista e Visionario
Vittorio Olcese, nasce nel 1925. Quindi. Annus Mirabilis.
Sintesi riuscita di aristocrazia ottocentesca e novecentesca.
Proprietario Villa dei Vescovi, gioiello rinascimentale padovano.
Raccoglitore intuitivo e intelligente di opere di Bacon.
Raffinato storico e analista della politica. Spadoliniano.
Un trittico per me irrisolvibile, perché legato da mille
e mille fili, alla personalità di un uomo di cultura dalla
qualità radiosa, nello speculare su questioni sottilissime,
intrigate e in sapersi districare nelle questioni pratiche del
suo essere industriale e politico e collezionista d’arte di
rara intuizione. La sua persona era immensa in un eterno
ossimoro, di semplicità e sfarzo, esteticità, quasi naturale, nel
suo modo di parlare, di gesticolare, di contendere al silenzio
il tempo della meditazione tra una parola e l’altra, come
condottiero di un temporeggiamento, che è quello che impone
al logos una capillarità con il pathos. Ci incontravamo
spesso, in una Milano da bere, in cui sia io che lui eravamo
grandi elogiatori di vini, grappe, aperitivi (con speciale attenzione
per Zucca e Campari) ma in realtà pigri bevitori di tutto,
cosa che celavamo (soprattutto al prode e raffinato Roberto
Sambonet, capace, invece, di coniugare teoria e prassi, con rara
nobiltà, selettiva e gestuale). Il nostro specchio dialogico era
sempre quello di Testori e Spadolini, i due angeli custodi di
una modernità condita con il senso del sacro e della trascendenza.
Da lui ho appreso quanto è amara e sconclusionata la via
d’arte del collezionista che vuole “investire”. Chi vuole investire,
diceva, faccia altro, perché l’arte è solo patrimonio d’amore,
sia quando è rivolta al passato, la Villa dei Vescovi di Padova,
oppure al presente, l’incombente espressionismo astratteggiante
di Francis Bacon. Senza esclusivismi però, perché nel suo pantheon
c’erano le somiglianze delle nostre anime, per maghi della
creazione artistica (tutti sanno che intendo, invenzione) come
Arturo Martini e Mario Sironi, per segrete preziosità come
nel caso di Gino Rossi. Definirlo collezionista, per me vuol dire
dargli quel senso di rinascimentale che perdurava nella sua
concezione di Wunderkammer, in cui si incrociano le meraviglie,
facendo il grande coro dello spirito umano, che non è scivolamento
biologico e biografico del cosmo, ma grande mistero, d’armonia,
anello coniugale di bellezza e sublimità. Lui impastato di ragione
da Anselmo d’Aosta, del monologion e del proslogion, intriso di
scolastica e di galileismo bruniano e mazziniano, di sorte beffarda,
perse se stesso e la ragione, prima di morire.1999. Annus Horribilis.