CLIMAX 30 di Francesco Gallo Mazzeo

 

Vittorio Olcese. Collezionista e Visionario

 

Vittorio Olcese, nasce nel 1925. Quindi. Annus Mirabilis.

Sintesi riuscita di aristocrazia ottocentesca e novecentesca.

Proprietario Villa dei Vescovi, gioiello rinascimentale padovano.

Raccoglitore intuitivo e intelligente di opere di Bacon.

Raffinato storico e analista della politica. Spadoliniano.

Un trittico per me irrisolvibile, perché legato da mille

e mille fili, alla personalità di un uomo di cultura dalla

qualità radiosa, nello speculare su questioni sottilissime,

intrigate e in sapersi  districare nelle questioni pratiche del

suo essere industriale e politico e collezionista d’arte di

rara intuizione. La sua persona era immensa in un eterno

ossimoro, di semplicità e sfarzo, esteticità, quasi naturale, nel

suo modo di parlare, di gesticolare, di contendere al silenzio

il tempo della meditazione tra una parola e l’altra, come

condottiero di un temporeggiamento, che è quello che impone

al logos una capillarità con il pathos. Ci incontravamo

spesso, in una Milano da bere, in cui sia io che lui eravamo

grandi elogiatori di vini, grappe, aperitivi (con speciale attenzione

per Zucca e Campari) ma in realtà pigri bevitori di tutto,

cosa che celavamo (soprattutto al prode e raffinato Roberto

Sambonet, capace, invece, di coniugare teoria e prassi, con rara

nobiltà, selettiva e gestuale). Il nostro specchio dialogico era

sempre quello di Testori e Spadolini, i due angeli custodi di

una modernità condita con il senso del sacro e della trascendenza.

Da lui ho appreso quanto è amara e sconclusionata la via

d’arte del collezionista che vuole “investire”. Chi vuole investire,

diceva, faccia altro, perché l’arte è solo patrimonio d’amore,

sia quando è rivolta al passato, la Villa dei Vescovi di Padova,

oppure al presente, l’incombente espressionismo astratteggiante

di Francis Bacon. Senza esclusivismi però, perché nel suo pantheon

c’erano le somiglianze delle nostre anime, per maghi della

creazione artistica (tutti sanno che intendo, invenzione) come

Arturo Martini e Mario Sironi, per segrete preziosità come

nel caso di Gino Rossi. Definirlo collezionista, per me vuol dire

dargli quel senso di rinascimentale che perdurava nella sua

concezione di Wunderkammer, in cui si incrociano le meraviglie,

facendo il grande coro dello spirito umano, che non è scivolamento

biologico e biografico del cosmo, ma grande mistero, d’armonia,

anello coniugale di bellezza e sublimità. Lui impastato di ragione

da Anselmo d’Aosta, del monologion  e del proslogion, intriso di

scolastica e di galileismo bruniano e mazziniano, di sorte beffarda,

perse se stesso e la ragione, prima di morire.1999. Annus Horribilis.