
Emilio Greco. Nel bello. Nel mito.
Gli anni ottanta sono stati i miei anni catanesi, per me molto intensi
e formativi, nella collaborazione con la rivista Orpheus, Rivista di studi
crociani, Le ragioni critiche. Sono stati gli anni in cui ho fondato la
Galleria d’Arte Moderna di Paternò, su progetto di Costantino Dardi,
con collaborazione di Enzo Indaco e Luce Monachesi. Passeggiando
nei lunghi pomeriggi primaverili e autunnali, lungo la Via Etnea, quasi
a seguire le orme di Vincenzo Bellini, Giovanni Pacini, ma anche di
Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico de Roberto, come a poterli
contare, nell’andirivieni tra Piazza Stesicoro e Via Umberto, con le
preziosità di Savia e Spinella, dove incontravo il gruppo storico degli
intellettuali, con Ermanno Scuderi, Pippo Giuffrida, Tano e Antonio
Brancato e lo scultore Salvo Giordano, sempre altercante con Nunzio
Sciavarrello, Sebastiano Milluzzo, Elio Romano. Nel parlare con Salvo
Giordano, un argomento principe: Emilio Greco. Catanese approdato
a Roma e alla fama. Molto era basato sulla sua biografia giovanile, sui
suoi apprendimenti e sui debiti poetici e tecnici, nei confronti dello stesso
Giordano, solo di qualche anno più anziano, del 1907 lui, del 1913 l’altro.
Ma, si sa, in prima gioventù, cinque anni sono tanti. Oggi sono tutti
morti, tranne Tano Brancato, che mi fece conoscere due raffinati, colti e
impareggiabili artisti, Alberto Abate e Franco Piruca. A lui devo tanto,
nell’amore per la cultura dell’arte e per l’attenzione al dettaglio, dove si
consuma la vita di ogni opera. Negli anni novanta, 1990, il mio incontro
con Emilio Greco, nel suo studio romano, era con me l’on. Nino Lombardo,
democristiano di sinistra e uomo di vasti interessi artistici. Rimasi folgorato
dalla sua figura ieratica, che somigliava alla fantasmatica metafisica dei
suoi disegni, costruiti con una linea tessile della sua matita, che finiva per
dare un corpo soffice e leggero alle sue figure femminili, tutte tratte dal
catalogo etereo della bellezza e alle sue sculture, la cui essenzialità
materica, finiva per slanciarle e farle apparire volanti. Parlammo a lungo,
di tutto, di tutti, ma soprattutto di Peppino Mazzullo e Francesco Messina,
nati, come si dice, nella porta accanto dell’area ionica, ma anche di Franco
Cannilla, di Paolo Schiavocampo, Giacomo Baragli e dello stesso Consagra,
lontano dalla sua poetica, ma per questo seguito e apprezzato. Mi regalò
un libro gigantesco, un grande libro dei suoi disegni e della sua scultura,
che mi conferma, oggi, dalle sue pagine non ingiallite, la sua forza, la sua
qualità stilistica, la stessa di cui si vantava il Giordano; una fermezza
michelangiolesca, che gli permetteva di essere rigoroso fino in fondo e
poi inventivo all’infinito, perché le sue ali fantastiche erano salde come
quelle di Dedalo e il suo desiderio come quello di Icaro; volare senza
bruciarsi, ardire senza disperdersi. Nel sogno di Fidia e di Policleto.