CLIMAX 32 di Francesco Gallo Mazzeo

Emilio Greco. Nel bello. Nel mito.

 

Gli anni ottanta sono stati i miei anni catanesi, per me molto intensi

e formativi, nella collaborazione con la rivista Orpheus, Rivista di studi

crociani, Le ragioni critiche. Sono stati gli anni in cui ho fondato la

Galleria d’Arte Moderna di Paternò, su progetto di Costantino Dardi,

con collaborazione di Enzo Indaco e Luce Monachesi. Passeggiando

nei lunghi pomeriggi primaverili e autunnali, lungo la Via Etnea, quasi

a seguire le orme di Vincenzo Bellini, Giovanni Pacini, ma anche di

Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico de Roberto, come a poterli

contare, nell’andirivieni tra Piazza Stesicoro e Via Umberto, con le

preziosità di Savia e Spinella, dove incontravo il gruppo storico degli

intellettuali, con Ermanno Scuderi, Pippo Giuffrida, Tano e Antonio

Brancato e lo scultore Salvo Giordano, sempre altercante con Nunzio

Sciavarrello, Sebastiano Milluzzo, Elio Romano. Nel parlare con Salvo

Giordano, un argomento principe: Emilio Greco. Catanese approdato

a Roma e alla fama. Molto era basato sulla sua biografia giovanile, sui

suoi apprendimenti e sui debiti poetici e tecnici, nei confronti dello stesso

Giordano, solo di qualche anno più anziano, del 1907 lui, del 1913 l’altro.

Ma, si sa, in prima gioventù, cinque anni sono tanti. Oggi sono tutti

morti, tranne Tano Brancato, che mi fece conoscere due raffinati, colti e

impareggiabili artisti, Alberto Abate e Franco Piruca. A lui devo tanto,

nell’amore per la cultura dell’arte e per l’attenzione al dettaglio, dove si

consuma la vita di ogni opera. Negli anni novanta, 1990, il mio incontro

con Emilio Greco, nel suo studio romano, era con me l’on. Nino Lombardo,

democristiano di sinistra e uomo di vasti interessi artistici. Rimasi folgorato

dalla sua figura ieratica, che somigliava alla fantasmatica metafisica dei

suoi disegni, costruiti con una linea tessile della sua matita, che finiva per

dare un corpo soffice e leggero alle sue figure femminili, tutte tratte dal

catalogo etereo della bellezza e alle sue sculture, la cui essenzialità

materica, finiva per slanciarle e farle apparire volanti. Parlammo a lungo,

di tutto, di tutti, ma soprattutto di Peppino Mazzullo e Francesco Messina,

nati, come si dice, nella porta accanto dell’area ionica, ma anche di Franco

Cannilla, di Paolo Schiavocampo, Giacomo Baragli e dello stesso Consagra,

lontano dalla sua poetica, ma per questo seguito e apprezzato. Mi regalò

un libro gigantesco, un grande libro dei suoi disegni e della sua scultura,

che mi conferma, oggi, dalle sue pagine non ingiallite, la sua forza, la sua

qualità stilistica, la stessa di cui si vantava il Giordano; una fermezza

michelangiolesca, che gli permetteva di essere rigoroso fino in fondo e

poi inventivo all’infinito, perché le sue ali fantastiche erano salde come

quelle di Dedalo e il suo desiderio come quello di Icaro; volare senza

bruciarsi, ardire senza disperdersi. Nel sogno di Fidia e di Policleto.