Martini. Antico. Moderno
Ho davanti a me due libri che contengono il pensiero di Arturo
Martini sulla scultura e sono Colloqui con Arturo Martini, di
Gino Scarpa, con sapiente introduzione di Guido Piovene e
l’edizione Jaca Book di La scultura lingua morta; ma per non
farmi mancare niente, anche Contemplazioni, prima edizione,
1918, con scrittura asettica, che sembra uno spartito musicale
e si vuole mostrare come, tale linguaggio, sia senza senso, per
cui vuol dire tutto e niente. Non male, per un autodidatta puro,
frequentatore saltuario di scuole serali, capace di diventare uno
dei massimi esponenti della scultura europea del novecento,
capace di interpretare una linea di ingegno inventivo, che va
da Michelangelo a Bernini, da Canova a Medardo, con una
qualità tecnica, una solida tradizione, tale da equiparare, ciò,
con la sua scelta di modernità e la sua carica di originalità;
instancabile incisore, ceramista, scultore, che imprecava
contro tutti e tutto, ma specialmente contro la sua povertà,
sempre compagna indesiderata, nonostante le tante opere,
le tante commissioni, come il Tito Livio, dell’Università di
Padova e il Partigiano Masaccio, con cui si accomiatò dalla
vita, avendo fatto in mezzo, il Tito Minniti, eroe d’Africa e il
Leone di Giuda, di cui esiste il relitto di un bronzo, venuto
male nella fusione. Ramingo per mezza Italia, a volte vendeva
una sua scultura, ancora in facimento, a più di un acquirente,
con tutte le conseguenze di fuga e di cambiamento di amici
e frequentazioni. La mia storia personale, con Martini, è legata
alla vicenda del ritrovamento, in un vecchio magazzino di farine,
sul Monte Amiata, ad Arcidosso, dell’Amante Morta, portentoso
gesso patinato “etruschesco”, oggi a Villa Necchi Campiglio in
Milano e del Dormiente, detto anche Endimione, alla Galleria
Nazionale di Roma. Il giudizio storico e critico, su di lui e sulla
sua opera, è in gran parte ancora sospeso, se non mancante del
tutto, sulla sua prepotente personalità di scultore, capace di fare,
capace di riflettere, non solo sul suo lavoro, ma anche su quello
degli altri, predicendo un futuro, per la scultura a dispetto della
lingua morta, che per lui era la statuaria (alla Bistolfi…) celebrativa
e a tutta la monumentalistica, auspicando una libertà di ricerca e
la messa in discussione di ogni canone, facendo partire ogni
regola da ogni genio: il supremo per lui era Michelangelo.