K. CLIMAX 3 di Francesco Gallo Mazzeo

Novecentismo e Sironi

 

Esaltato, denigrato, portato alle stelle, gettato nella polvere,

questa è una vicenda, che ci tocca tutti, culturalmente, quella

del “Novecento Italiano”, nell’ambito del novecentismo europeo,

che ha vissuto, nella prima metà del secolo scorso, la complessa

storia continentale, di modernizzazione e industrialismo, di forte

metropolismo e sradicamento sociale, ma soprattutto, a sola

eccezione del mondo anglosassone, quella dei fascismi e dei

comunismi, diversi tra loro, ma accomunati nella negazione delle

libertà politiche e culturali. Della politicità, si deve occupare (e si

occupa) la storia, comunemente intesa, senza aggettivi. Noi, qui,

vogliamo fare una incursione, per arti visive, sul novecentismo

italiano e su Sironi (che ne è stato mente anima e cuore), dei

due eventi e soggetti maggiori, in tutti i sensi, che non possono

essere esaltati oppure denigrati, per partito preso. Novecentismo

è Arengario di Milano, Foro Olimpico (già Foro Mussolini) di Roma,

Poste di Via Medina, a Napoli, Latina (già Littoria) e soprattutto Eur,

quartiere della capitale, degno della storia e attualità urbanistica e

architettonica della capitale. E l’elenco potrebbe essere lungo…

E che dire, dei nomi di Giovanni Muzio, Giò Ponti, Paolo Mezzanotte,

Marcello Piacentini, Mario Pagano, che nessuno può cancellare dalla

memoria della cultura italiana e internazionale. La sua figura centrale,

resta quella di Mario Sironi, geniale inventore di immagini, analista della

solitudine, della ieraticità, capace di dare una interpretazione personale,

ma profonda e maieutica, alla grande lezione di Picasso, attuale quanto

quella di Masaccio, quattrocentesca, fornendoci una lettura contemporanea,

dell’arte come umanesimo della vista, della rappresentazione.

In questo senso, Sironi è psicologo, sociologo, antropologo, che oltre

alle grandi rappresentazioni maestose, severe, delle sue opere pubbliche

e monumentali, si esprime in una vasta opera immaginaria, della condizione 

umana, fatta di solitudini in mezzo alle folle, di continua e disperata ricerca

di un sé, pirandelliano e ibseniano, perduto nel labirinto della banalità.

Sironi figura la trasformazione del mondo, in grigio, da naturale ad artificiale

e quindi di una patente traumaticità, in un clima di assolutizzazione di certezze,

che in realtà erano incertezze ed enigmi, che De Chirico aveva, con anticipo,

risolto, nella sua cromaticità, forte e folle dei meriggi ferraresi e Sironi

ha immesso nella commedia/tragedia, immaginandola come possibile artefice,

di imperscrutabile e auspicabile rinascita. Confrontando Sironi con De Chirico,

possiamo dire che la modernità artistica, precede sempre in due linee di fondo,

che poi si moltiplicano e si ibridano; le possiamo definire, prendendo prestiti

dalla retorica antica, asiana e attica, la prima fatta da aggiunzioni, forti 

cromatiche, ori e smalti (anche…Klimt) e la seconda di francescanesimi, 

sottrazioni, ferri e calce viva (Sironi..appunto). Possiamo amare entrambe,

perché siamo molteplici, mutevoli, moderni.