Novecentismo e Sironi
Esaltato, denigrato, portato alle stelle, gettato nella polvere,
questa è una vicenda, che ci tocca tutti, culturalmente, quella
del “Novecento Italiano”, nell’ambito del novecentismo europeo,
che ha vissuto, nella prima metà del secolo scorso, la complessa
storia continentale, di modernizzazione e industrialismo, di forte
metropolismo e sradicamento sociale, ma soprattutto, a sola
eccezione del mondo anglosassone, quella dei fascismi e dei
comunismi, diversi tra loro, ma accomunati nella negazione delle
libertà politiche e culturali. Della politicità, si deve occupare (e si
occupa) la storia, comunemente intesa, senza aggettivi. Noi, qui,
vogliamo fare una incursione, per arti visive, sul novecentismo
italiano e su Sironi (che ne è stato mente anima e cuore), dei
due eventi e soggetti maggiori, in tutti i sensi, che non possono
essere esaltati oppure denigrati, per partito preso. Novecentismo
è Arengario di Milano, Foro Olimpico (già Foro Mussolini) di Roma,
Poste di Via Medina, a Napoli, Latina (già Littoria) e soprattutto Eur,
quartiere della capitale, degno della storia e attualità urbanistica e
architettonica della capitale. E l’elenco potrebbe essere lungo…
E che dire, dei nomi di Giovanni Muzio, Giò Ponti, Paolo Mezzanotte,
Marcello Piacentini, Mario Pagano, che nessuno può cancellare dalla
memoria della cultura italiana e internazionale. La sua figura centrale,
resta quella di Mario Sironi, geniale inventore di immagini, analista della
solitudine, della ieraticità, capace di dare una interpretazione personale,
ma profonda e maieutica, alla grande lezione di Picasso, attuale quanto
quella di Masaccio, quattrocentesca, fornendoci una lettura contemporanea,
dell’arte come umanesimo della vista, della rappresentazione.
In questo senso, Sironi è psicologo, sociologo, antropologo, che oltre
alle grandi rappresentazioni maestose, severe, delle sue opere pubbliche
e monumentali, si esprime in una vasta opera immaginaria, della condizione
umana, fatta di solitudini in mezzo alle folle, di continua e disperata ricerca
di un sé, pirandelliano e ibseniano, perduto nel labirinto della banalità.
Sironi figura la trasformazione del mondo, in grigio, da naturale ad artificiale
e quindi di una patente traumaticità, in un clima di assolutizzazione di certezze,
che in realtà erano incertezze ed enigmi, che De Chirico aveva, con anticipo,
risolto, nella sua cromaticità, forte e folle dei meriggi ferraresi e Sironi
ha immesso nella commedia/tragedia, immaginandola come possibile artefice,
di imperscrutabile e auspicabile rinascita. Confrontando Sironi con De Chirico,
possiamo dire che la modernità artistica, precede sempre in due linee di fondo,
che poi si moltiplicano e si ibridano; le possiamo definire, prendendo prestiti
dalla retorica antica, asiana e attica, la prima fatta da aggiunzioni, forti
cromatiche, ori e smalti (anche…Klimt) e la seconda di francescanesimi,
sottrazioni, ferri e calce viva (Sironi..appunto). Possiamo amare entrambe,
perché siamo molteplici, mutevoli, moderni.