De Chirico. Metafisico. Realistico.
Enim quid amabo nisi quod aenigma est? E che cosa
amerò se non ciò che è enigma? È la famosa espressione di
Giorgio De Chirico che può essere epigrafica di tutta la sua pittura,
dalle origini sconvolgenti del reale e dell’immaginario, che pure
dall’espressionismo in poi, non aveva più cessato di essere forte,
eclatante, spiazzante. Partiamo dalla sua metafisica che è posta
a metà strada dell’essere ordinario e del non essere straordinario,
con il suo infrangere le regole dell’ornato e della pittura, che
sono tonalità in tutte le sfumature, immettendo una geometricità,
netta, tagliente, dove vige una temporalità e una spazialità che
non sono più cronologiche, emozionali, linguistiche, ma assurgono
a sospensioni oniriche, a linearità paniche, ad oralità
delfiche, dando e prendendo regole e sentenze da una sorta
di alchimia immobilizzata. Sono così le sue vedute ferraresi,
i suoi mobili nella valle, le prime sottili come carte velina, come
insegne stradali iconiche, le seconde con una crescita di spessore, che
prefigura la vera pittura mitologica, quella che lo accompagnerà
per tutta la vita, con andate e ritorni, che faranno arricciare il
naso a tanti schizzinosi, ma sono l’altalena intelligente e
briosa della sua esistenza, tra Piazza di Spagna, Piazza Mignanelli,
il Caffè Greco, le traversie del suo mercato e la povera Luisa
Spagnoli, che inventò un linguaggio, uno stile narrativo, che per scrivere
La lunga vita di Giorgio De Chirico, “raccontata (come si legge nella
copertina di Longanesi) da critici, amici, parenti e nemici, dovette prendere
migliaia di caffè e basta e sorbirsi ore di racconti di viaggi, incontri, scontri
per poi sentirsi dire il giorno dopo, uno dei tanti giorni dopo, che no,
non era stato mai a Monaco in quell’anno e non aveva affatto
litigato con Breton”. Tutto uno scherzo…o forse l’enigma, il suo vero
amore, che ci ha lasciato un’opera michelangiolesca, tutta da studiare,
ora che su di lui si sono sopiti i clamori. Come accade per ogni genio!