K. CLIMAX 2 di Francesco Gallo Mazzeo

Futurismo.

Centenario

 

I cento anni, li ha abbondantemente superati, visto che il suo

primo manifesto generale, il futurismo, lo ha visto pubblicato

sul quotidiano parigino “Le Figaro” nel 1909, incitando, gli artisti,

i giovani, i popoli, gli italiani, in particolare, ritenuti sonnacchiosi

e un po’ (in realtà, molto…) pigri, al coraggio, alla temerarietà,

all’energia, al pericolo. Certo, i suoi protagonisti e il suo linguaggio,

ci appaiono, per tanti versi, di un altro mondo, non fosse altro, che

per le certezze granitiche, di cui erano pieni, per le altisonanti

parole e affermazioni, non solo sul chiaro di luna, da abolire e sulla

asfaltatura del Canal Grande di Venezia, ma anche per l’esaltazione

acritica del macchinismo, della guerra, della violenza.

Li accogliamo, non alla lettera, perché neanche essi stessi lo facevano,

ma per la loro forma e sostanza metaforiche, poetiche, teatrali, tese a

creare scandalo, dove c’era imperante un eccesso di tradizionalismo,

che è stanca banale ripetizione, mentre la tradizione, in sé, è gioia

umanistica del nuovo. Ritenevano mollicci e ritardatari, l’impressionismo,

l’espressionismo e reazionaria la secessione viennese. E, così, là dove

il cubismo è stato elitariamente pittorico, parigino e aristocratico,

il futurismo è stato interdisciplinare, interessando tutto l'universo delle

discipline artistiche, dalla pittura, alla scultura, dalla musica, alla poesia,

al teatro, all’architettura, all’urbanistica, ma sforando  anche su moda,

cucina e interessandosi anche di giovani, di vita quotidiana e politica.

Con il futurismo, si chiede un’epoca di minorità italiana, culturale e

artistica, rispetto a Vienna, a Parigi, a Londra; una minorità durata per

tutto il rapido ottocento (che però ci ha dato l’unità nazionale e il colosso

Giuseppe Verdi…) che ci aveva visto arretrare, già dal sei settecento,

dal primo posto che avevamo nel cinquecento. Il futurismo, è il “miracolo”

dell’Italia unita, che può coniugare talenti del nord e del sud, unificando

le tante “italiette” da barzelletta, che erano diventate, le già gloriose

repubbliche marinare e ducati vari, ridotti a puri fantasmi. Il futurismo

italiano è diventato poi secondo futurismo, aero futurismo,

futurismo internazionale, mondiale, riportando il nostro paese, in

rango e su pedana, da cui mancava dai secoli del Rinascimento,

proponendo una visione dell’arte aperta alla modernità, cioè ad una

ardita sperimentazione e contaminazione, ad una originalità non più

ancorata necessariamente al criterio delle belle arti, di brutto o di bello,

ma di un sistema di arti visive, orientate all’emozione, alla gestualità,

alla nozione di interesse sublimante. Da questo punto di vista,

il futurismo (come anche il cubismo e il dadaismo) rimane endemico,

perché ha conquistato il senso comune; esiste anche senza essere incarnato,

senza essere nominato, senza che Marinetti, Boccioni, Balla, Severini, Sant’Elia,

siano riconosciuti e salutati per strada; e di questo possiamo essere orgogliosi,

a patto di recepirlo, come un evento metodologico e non come un dogma.